Le tue domande

1. Da qualche mese sto pensando di lasciare il lavoro. Non mi trovo più bene con i colleghi e sembra che qualsiasi cosa faccio o dico sia sbagliata.

Nel corso della vita ci si imbatte spesso nella necessità o nel desiderio di cambiare lavoro ma a volte tale cambiamento si accompagna a vissuti di fatica, paura, ansia e preoccupazione che nell’insieme possono far sentire la persona smarrita e irrequieta. Cambiare è difficile per tutti, soprattutto quando la scelta non dipende da noi e non rispecchia i nostri tempi interni; cambiare lavoro inoltre implica un ripensarsi e un riprogettarsi, interessa si l’identità professionale ma anche quella personale.

A volte l’ansia per il cambiamento, l’insoddisfazione e la frustrazione per quello che si ha e che si sta facendo, la difficoltà a prendere una decisione, il rapporto con i colleghi o con i datori di lavoro superano i nostri livelli di tolleranza e questo ricade sul nostro benessere determinando un vissuto di eccessivo sovraccarico fisico ed emotivo. Ci si può sentire svuotati, senza energia, senza motivazione, si può provare un senso di rifiuto e di disinteresse che può interessare anche la vita al di fuori del luogo di lavoro. Possono emergere difficoltà nel sonno, sintomi fisici come cefalea o disturbi a carico dell’apparato gastrointestinale.

Un percorso psicoterapeutico può rappresentare un’opportunità per dare voce a ciò che stiamo vivendo; il confronto può permetterci di acquisire un nuovo sguardo, migliorando la capacità di gestire lo stress e di individuare nuove prospettive.

2. Sono stata lasciata, ormai da più di un anno, da un ragazzo che non voleva impegnarsi. Continuo a pensarlo e mi chiedo se avessi potuto fare qualcosa di più per noi.

La fine di una relazione d’amore può rappresentare una profonda ferita che porta la persona a chiedersi non solo il perché sia capitato a lei ma anche dove e cosa abbia sbagliato, perché lei stessa sia cosi sbagliata. Separarsi e lasciare andare una persona cara è molto difficile, si tratta di una vera e propria esperienza dolorosa le cui dimensioni sono paragonabili a quelle di un lutto: sconcerto, solitudine, tristezza, vergogna, senso di vuoto e di fallimento, demotivazione, rabbia. Comporta il doversi ripensare, il doversi mettere di nuovo in discussione e per questo motivo spesso le persone, nonostante vivano relazioni insoddisfacenti e piatte, preferiscono rimanere, portando avanti un rapporto più per abitudine che per convinzione. La coppia cosi composta però assume l’aspetto di una stampella senza la quale pensiamo di non poterci muovere nel mondo, un utopistico luogo sicuro al quale tornare ma nel quale non ci sentiamo affatto felici.

Quando si viene lasciati è comune ritrovarsi a pensare che non si sarà mai più felici e che non si incontrerà mai più nessuno come quel partner, ma si tratta solo di insicurezza. Ripartire dopo la fine di una relazione significa ripartire da noi, tornare ad ascoltarci e a dedicarci del tempo. Significa chiedersi come quell’incontro ci abbia cambiato, cosa desideriamo e cosa abbiamo imparato di noi. I nostri sogni, i nostri progetti e i nostri valori non sono svaniti con quella rottura, ancora ci appartengono, dobbiamo darci la possibilità di riprogettarli. Diventa importante vivere quell’esperienza di dolore, stare nel momento e accettare le emozioni che porta con sé, non avere la fretta di stare subito meglio o di ricercare un sostituto.

A volte può essere utile parlare con uno specialista per ripercorrere non solo la storia appena conclusasi ma usarla come trampolino di lancio per esplorare il proprio mondo emotivo, le proprie dinamiche interne, le eventuali riedizioni di esperienze già vissute, i modelli familiari che ci portiamo dietro e che possono influenzare e condizionare le nostre scelte.

3. Mia figlia ha 15 anni e io proprio non la capisco. È sempre arrabbiata, sempre attaccata al suo cellulare. In casa è sfuggente e quando le si chiede come va risponde a monosillabi. Mia moglie mi rimprovera di non esserci abbastanza, di essere sempre impegnato con il lavoro.

L’adolescenza rappresenta una tappa evolutiva importante che riguarda e coinvolge non solo il ragazzo ma anche la famiglia: è spesso caratterizzata dal manifestarsi di comportamenti trasgressivi, frequenti sbalzi di umore, difficoltà emotive, accesa conflittualità con i genitori o atteggiamenti di evitamento e chiusura, incapacità a tollerare le frustrazioni. L’adolescente è chiamato ad un crescita e per fare ciò deve attraversare un momento di crisi che comporta una radicale trasformazione fisica, intellettiva, comportamentale, psicologica: in quest’ottica potrebbe essere paragonata ad una seconda nascita in quanto il corpo cambia, si svegliano le pulsioni sessuali, cambiano gli interessi, il confronto e la ricerca di approvazione del gruppo dei pari diventa sempre più importante, i modelli educativi genitoriali vengono messi in discussione, la ricerca di autonomia e di differenziazione diventano più forti.

I genitori possono allora, come i figli, ritrovarsi coinvolti in questo terremoto emotivo e possono far fatica a capire come orientare il proprio ruolo educativo sentendosi impotenti e schiacciati da tali virtuosismi emotivi. I ragazzi di oggi, contrariamente alla generazione precedente, sono stati cresciuti con una visione più espressiva che punitiva, circondati da smartphone e strumenti che li hanno esposti, sin da bambini, a sollecitazioni e stimolazioni. E se da una parte questo li ha resi tecnologici e globalizzati, dall’altra li ha resi più fragili e incapaci a gestire le frustrazioni, la noia, la solitudine. Ai genitori viene richiesto di rivisitare lo stile comunicativo, senza mai interromperlo: trovare una giusta distanza tra la presenza affettiva di cui il figlio ancora necessita e lasciare loro quello spazio affinché possano sperimentare e sperimentarsi. Chiedere loro come stanno, come va e cosa è successo sui social durante la giornata, e non solo se hanno studiato e come è andata a scuola.

Si alternano cosi momenti di consueta normalità dove genitori e figli riescono a convivere e a dialogare a momenti di sfiducia, incomprensione, rabbia, provocazione e disperazione dove i figli non si sentono capiti, ma solo accusati e giudicati e i genitori frastornati e preoccupati. Delle vere e proprie montagne russe!

Irrigidirsi e inserire regole e punizioni dopo che si è impostato uno stile educativo sul dialogo e il confronto ha poco senso, aumenterebbe il senso di frustrazione e incomprensione reciproca.

Tuttavia, sebbene si sia detto che l’adolescenza rappresenta un fisiologico passaggio di crescita, è importante saper riconoscere quei segnali di disagio che diventano espressione di un malessere più profondo che deve essere indagato e approfondito: un improvviso cambiamento in senso negativo nell’atteggiamento scolastico, condotte o frequentazioni devianti, ritiro sociale, tendenza a dormire troppo alternando il giorno con la notte, comportamenti alimentari insani, somatizzazioni, attacchi di panico, gesti di autolesionismo, uso di droghe o alcool, comportamenti sessuali promiscui. La presenza di tali sintomi non implica necessariamente una psicopatologia conclamata, ma è il segnale di una sofferenza profonda che deve essere esplorata tempestivamente affinché non degeneri in malattia.

4. Da mesi convivo con il reflusso, una sensazione che è diventata limitante e che proprio non mi abbandona, nonostante le cure che seguo. La psicoterapia può aiutarmi?

Il reflusso gastroesofageo è un disturbo causato dalla risalita anomala dei succhi gastrici dallo stomaco all’esofago. I succhi gastrici sono prodotti dalla mucosa interna dello stomaco e contengono acqua, sali, enzimi digestivi, acido cloridrico e infine muco che protegge la parete gastrica cosi da non danneggiarla nonostante la presenza di sostanze acide.

Se lo sfintere gastroesofageo si rilascia nel momento sbagliato, questa apertura consente il passaggio dei contenuti gastrici verso l’alto producendo quello che viene chiamato reflusso. I sintomi comportano bruciore a livello del petto, dietro allo sterno, che può risalire verso la gola e la cavità orale.

L’origine della sintomatologia è complessa e articolata: può dipendere da abitudini alimentari scorrette, da un eccessivo consumo alcolico, possono esserci cause anatomiche come una chiusura incompleta dello sfintere esofageo o la presenza di un’ernia iatale, cause funzionali come una eccessiva secrezione gastrica o un prolungato ristagno di cibo nello stomaco o ancora possono dipendere dall’assunzione di farmaci che irritano le pareti gastriche.

È stata tuttavia dimostrata anche la forte componente psicosomatica all’origine del disturbo: l’immagine che meglio rende questo tipo di sintomatologia è proprio un fuoco (pirosi) che sale e sfiamma, come se il cibo ingoiato non potesse essere digerito correttamente, come se lo stomaco si stesse opponendo e rimandasse indietro quanto ricevuto. Simbolicamente la pirosi altro non è che un fuoco dentro, un’aggressività repressa che rimane nascosta per l’incapacità del soggetto che ne soffre di esternare le proprie insofferenze nei confronti di situazioni che fa fatica a digerire e per aver dovuto mandare giù bocconi amari.

5. Due anni fa ho subito un incidente automobilistico e da allora, sebbene lo nasconda, ho paura di salire in auto e di guidare. Cosa posso fare?

La paura di guidare, anche chiamata amaxofobia, costituisce una vera e propria fobia che comporta la paura di mettersi alla guida, di essere investiti o di causare un incidente, di trovarsi bloccati nel traffico senza possibilità di uscita, di guidare di notte, in galleria o su un ponte. Può essere molto invalidante in quanto influenza e limita l’autonomia e la serenità del soggetto che ne soffre. Può insorgere come conseguenza di un evento traumatico, quale l’essersi ritrovato coinvolto o aver assistito ad un incidente automobilistico, l’aver perso una persona cara in seguito ad un incidente, aver fatto un viaggio pericoloso o ancora essersi sentiti male durante la guida. Ciò che comporta nel soggetto è un’eccessiva ansia che sfocia in sintomi psichici (disagio, ansia), fisici (tachicardia, sudorazione eccessiva) e comportamentali (eccessivo controllo, evitamento)

Una terapia E.M.D.R. può essere d’aiuto in quanto consente alla persona di rievocare il momento traumatico elaborandolo in modo più funzionale e sciogliendo il meccanismo macchina=pericolo.

6. Da tempo la mia relazione è in crisi, sembra che non siamo più capaci di comunicare: io dico A ma lui capisce Z e viceversa. Cosa possiamo fare?

Anche le coppie più rodate e stabili possono attraversare momenti di grande fatica e fasi di grande incomprensione e tensione. Ma il solo sentimento non è sufficiente per tutelare il legame e quindi cosa si può fare? Rivolgersi ad un terapeuta specializzato può rappresentare un primo passo importante che offre la possibilità di guardare dall’interno cosa deve essere rafforzato e cosa invece necessita di una revisione, un po’ come se si trattasse di una casa da ristrutturare. Ed è proprio il modello di una casa a guidare il terapeuta ad ottenere un profilo della coppia attraverso la somministrazione di un questionario specifico volto ad indagare le aree disfunzionali che richiedono una “ristrutturazione” e quelle funzionali o aree di forza.

Casa relazione solida

La prima fase di assessment prevede la raccolta di informazioni e analisi della situazione; seguiranno due incontri individuali nei quali verranno dati ai due partner dei questionari da compilare individualmente e restituire. Infine, ci sarà una seduta di coppia dove verranno restituiti i risultati del questionario e verranno individuate le aree di forza e debolezza della coppia. Da qui inizierà la fase di lavoro e di rielaborazione dove verranno condivisi obiettivi specifici e verranno affidati alla coppia “compiti a casa” per allenare quelle competenze risultate più carenti.
Tale metodo è riconosciuto ad oggi come uno dei più efficaci e fonda le sue radici su importanti basi scientifiche (https://www.gottman.com/about/research/effectiveness-of-gottman-method/)

7. Mi ha lasciata, abbiamo litigato pesantemente, non risponde ai miei messaggi e alle mie chiamate. Non posso vivere senza di lui, mi sento morire dentro, non posso stare senza di lui. Mi faccio pena da sola.////Continuo a guardare se mi ha scritto, sussulto ad ogni notifica sperando che sia lei. Seguo le sue stories per vedere dov’è e cosa fa.

Sempre più spesso si sente parlare di dipendenza affettiva, ma spesso se ne parla male. Non ci riferiamo a cuori infranti o amori infelici bensì ad una vera e propria disfunzione relazionale che interessa molte donne e molti uomini. La dipendenza affettiva è una condizione in cui una persona sviluppa un attaccamento eccessivo e insano verso un’altra, spesso sacrificando il proprio benessere e la propria identità per mantenere la relazione. Questo tipo di dipendenza può manifestarsi in diverse forme, come un bisogno costante di approvazione e rassicurazione, paura di essere abbandonati o rifiutati, difficoltà a prendere decisioni senza il parere dell’altro, eccessiva sottomissione o controllo da parte del partner. È proprio la tendenza a mettere i propri bisogni e desideri in secondo piano, rispetto a quelli dell’altro, ciò che contraddistingue queste forme di relazione patologica. La relazione diventa così un luogo di sofferenza e tormento, ansia e perdita di sé stessi.

Le radici di questo disturbo sono da ricercare nella storia dei legami di attaccamento della persona: il dipendente affettivo è una persona che nella propria infanzia non è stata adeguatamente accudita e nutrita a livello affettivo e per questo, ha imparato a guadagnarsi e meritarsi l’affetto e l’amore delle persone di riferimento, facendo il “bravo” bambino. Ha così imparato a non pesare sugli altri, non disturbare con i propri bisogni, non chiedere attenzioni ed aiuto.

Questa mancata sintonizzazione dei genitori nei confronti del figlio può portare a un deficit di autoregolazione, il che implica una compromissione nella capacità di gestire autonomamente le proprie emozioni. A causa di questo deficit, la persona non riesce a regolare le proprie emozioni internamente e cerca quindi soluzione in oggetti esterni, come il partner, la droga, il gioco d’azzardo o il sesso, che diventano mezzi per gestire stati emotivi difficili.

Nella dipendenza affettiva, il partner assume il ruolo di un “oggetto additivo esterno", diventando essenziale per dare senso all’esistenza dell’individuo, riempiendo un vuoto affettivo e mitigando la solitudine. Il partner diventa così il fulcro attorno a cui si orientano l’autoregolazione delle emozioni e delle mappe cognitive e relazionali dell’individuo, fungendo da bussola nel mondo emotivo e relazionale.

Questo tipo di attaccamento si sviluppa spesso a seguito di una trascuratezza o malnutrizione emotiva nell’infanzia, portando alla formazione di modelli relazionali basati su premesse inadeguate. L’aspettativa è che il partner colmi i vuoti emotivi primitivi, assumendosi la responsabilità della sicurezza e felicità dell’individuo.

La società e la cultura contribuiscono anche a modellare queste percezioni, spesso romanticizzando le relazioni disfunzionali attraverso film, libri e canzoni, promuovendo miti come l’amore redentore, l’esaltazione della passione conflittuale e l’ideale del sacrificio, che possono perpetuare l’idea errata che l’amore debba includere sofferenza e sacrificio anziché benessere.

Raggiungere un benessere interiore si può. Un ascolto e una esplorazione di quelle che sono le proprie ombre irrisolte e insicure, un lavoro di consapevolezza che ti metta al riparo dai demoni interiori e che permetta di sganciarti da quell’eredità emotiva, risanandoti.

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